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Semiotropie. Eredità di Barthes
A cura di Giuseppe Crivella




Barthes e l’immagine*
di Philippe C. Dubois

(Traduzione di Maria Gaia Crivella)

16 febbraio 2016




Dal 1952, Roland Barthes comincia a snocciolare, prima in Critique e poi nelle Lettres Nouvelles, le sue petites mythologies du mois, in cui dissecca, analizza ed espone quanto c’è di ideologico e fallace nell’attualità dell’epoca. Che si dedichi a una pubblicità o a un evento sportivo, nulla sfugge alla sua lucidità critica; e Roland Barthes diventa ben presto uno degli osservatori più lucidi dell’epoca. Bisognerà tuttavia attendere il 1957 per vedere questi testi infine riuniti in un volume, Mythologies, nella cui seconda parte farà il punto teorico su Le mythe, aujourd’hui…; un momento importante nell’evoluzione di Barthes poiché segna il passaggio dalla mitologia alla semiologia, al cui sviluppo contribuirà in larga parte. Le scienze umane in effetti conoscono da questo momento uno slancio considerevole, in particolare per quanto riguarda l’informazione, la sua teoria, il suo sistema di segni e certamente il linguaggio. In un tale contesto non stupisce che Barthes, molto sensibile al suo ambiente, noti la presenza invadente di un altro sistema, quello delle immagini, del cinema, che vede «reconnu comme le modèle des mass media» (19).

Già alcune mitologie, come L’acteur d’Harcourt o Les Romains au cinéma, o ancora “Le Visage de Garbo” si rivolgevano al mondo dei film e del cinema. Ma il rapporto di Barthes con il cinema in generale è complesso, riconosce volentieri che il cinema lo annoia, soffre ad andarvi e ancor più a parlarne; ciò deriva probabilmente da quella che chiama «la loi du goût cinématographique» che, per snobismo, obbliga un intellettuale ad andare a vedere un film piuttosto che un altro, ma anche perché si rende presto conto che il cinema, e soprattutto l’immagine filmica, gli resiste, resiste all’approccio semiologico. Dal 1960, in testi come Le probléme de la signification au cinéma, così come Les unités traumatiques au cinéma, che pubblica nella Revue international de Filmologie è ben cosciente che l’immagine filmica si divide in un numero di elementi di cui alcuni costituiscono dei «véritables messages» che gli è pertanto difficile analizzare; difficoltà proveniente dal carattere diacronico dell’immagine filmica, il cui perpetuo movimento fa e disfa costantemente questa immagine. Una sfida di tale portata non basterà tuttavia a scoraggiare Barthes, bensì il contrario. Continua le sue ricerche, persevera, si ostina.

Nel 1963 pubblica il suo primo articolo nei Cahiers du cinéma, intitolato semplicemente Sur le cinéma, nel quale avanza l’idea del «sense suspendu». Da sottolineare che questo concetto, che riprenderà per qualificare i film della Nouvelle vague, sedurrà l’Unione degli studiosi comunisti, secondo quanto ci dice L.J. Calvet nella sua biografia di Roland Barthes. Questo dettaglio è abbastanza rivelatore dello statuto che il personaggio di Roland Barthes sta acquistando e dell’immagine che impone al discorso intellettuale francese. Nella stessa epoca, in effetti, tra 1964 e 1965, vedono la luce due opere molto barthesiane nella tradizione delle Mitologie: il film La femme mariée di Godard così come il romanzo di Perec, Les Choses. Ma Barthes non giunge sempre «à integrer le cinéma dans la sphère du langage» (22) e cerca ora per questo di frammentare la continuità filmica.

Continua le sue riflessioni in un articolo di Image et son del 1964, Sémiologie et cinéma, ma si scontra ancora con questioni che resteranno senza risposta fino al 1970, data in cui pubblica di nuovo nei Cahiers du cinéma quello che R. Bensmaïa definisce «un très beau texte», il famoso articolo su alcuni fotogrammi di S. M. Ejzenštejn, intitolato Le troisième sense. Questa riflessione sulla scrittura di Barthes e il trattamento particolare che somministra ai fotogrammi di Eisenstein si propone dunque di rivelare la natura esatta dell’immagine intorno alla quale si costruisce il discorso di Barthes, nello stesso momento in cui si definisce nello specchio del testo il riflesso del critico, del montatore, e di colui che presenta le immagini.

La data della pubblicazione del suo articolo su Ejzenštejn è importante, poiché segna la riedizione delle Mythologie in cui Barthes rivela, come nota S. Heath nel suo eccellente Vertige du déplacement, che «ce va-et-vient entre les deux systèmes constitue le fondement du discours mythique […]. L’oscillation dissimule la facture du sense mythique, la présence constante de la signification du premier système sur lequel se greffe le second en fait une nature».

Barthes aggiungerà a questi due sistemi, a questi due livelli, un terzo, quello che S. Heath chiama «une troisième voie de revol» [42], cioè la possibilità di «mythifier le mythe».

Un sistema di riflessione simile ma più maturo e più complesso emerge nel suo testo breve ma denso sui fotogrammi di Ejzenštejn. Il nome di S. M. Ejzenštejn è già menzionato nel 1963 all’epoca del suo rapporto con i Cahiers du cinéma; Roland Barthes non lascia nulla al caso e la scelta del cineasta sovietico, come stiamo per vedere, non sfugge a questa regola.

Nella sua opera Film form, Ejzenštejn inizia il capitolo intitolato The Filmic Fourth Dimension, da una rilettura di un proprio testo scritto un anno prima, in cui menziona l’importanza dell’estetica giapponese nel metodo di montaggio: «The Japanese regard each theatrical element, not as an incommensurable unit among the various categories of effect (on the various sense organs), but as a single unit of theater» (64). Di colpo, queste due attitudini — la rilettura del suo stesso testo (un nuovo montaggio, in un certo senso) così come il gusto per l’estetica giapponese — corrispondono bene al procedimento barthesiano. Da notare che il 1970, che vede la pubblicazione delle Notes sur quelques photogrammes d’Eisenstein è una data doppiamente importante poiché vede allo stesso tempo la pubblicazione dell’Empire des signes, dopo il terzo viaggio di Barthes in Giappone.

Ejzenštejn definisce quattro dimensioni del filmico. Allo spazio tridimensionale (visuale, uditivo, “sensoriale”) aggiunge una quarta dimensione, quella del tempo. Barthes andrà nel senso di Ejzenštejn quando quest’ultimo parla di sensualità e frammentazione: «The whole intricate, rhythmic and sensual nuance scheme of the combined pieces is conducted almost exclusively according to a line of work on the “psycho-physiological” vibrations of each piece». Ma al contrario di Ejzenštejn Barthes disprezza la nozione del tempo mentre decide di non interessarsi che ai fotogrammi, solo mezzo per lui di scoprire — mettere a nudo — il filmico. Passiamo dunque da quattro dimensioni a tre con Barthes che distingue così tre livelli. Il primo è il livello informativo, il più semplice, che corrisponde a quello della comunicazione. Segue il livello simbolico, che rinvia alla signification, che è intenzionale; il senso è allora evidente, siamo in presenza del senso ovvio:
l’art de S. M. Eisenstein n’est pas polysémique: il choisit le sens, l’impose, l’assomme [...]; le sens eisensteinien foudroie l’ambiguïté. Comment? par l’ajoute d’une valeur esthétique, l’emphase. […] Voyez l’image IV: très classiquement, la douleur vient des têtes penchées, des mines de souffrance, de la main qui sur la bouche contient le sanglot; mais tout cela une fois dit, très suffisamment, un trait décoratif le redit encore: la superposition des deux mains, disposée esthétiquement dans une ascension délicate, maternelle, florale, vers le visage qui se penche; dans le détail général (les deux femmes), un autre détail s’inscrit en abîme; venu d’un ordre pictural comme une citation des gestes d’icônes et de pietà, il ne distrait pas le sens mais l’accentue. (Œuvres Complètes, II-869).
Vedremo oltre l’importanza di questo aspetto nel testo di Barthes stesso. Infine, alla signification segue la signifiance o Terzo senso. Il terzo senso per Barthes è qualcosa che «excède le sens», un senso che risulta di troppo; quello che lui chiama «le sens obtus».

Il termine /senso/ contenuto in questa espressione resta comunque ambiguo perché polisemico. Pertanto, ben lontano dal risolvere l’ambiguità, Barthes, come sua abitudine, la coltiva. Il termine farà quindi riferimento alla signification (o, all’occorrenza, alla signifiance) assunta dall’immagine. L’immagine visuale fa certamente appello al senso della vista, al quale si coniuga un secondo senso, quello dell’udito, in un momento della storia del cinema in cui il sonoro è in pieno sviluppo. Il termine “senso” conferma dunque ugualmente l’idea di sensazione, che non tarderà ad andare alla deriva, conoscendo il gusto di Barthes per gli scivolamenti di senso verso sensibilità e sensualità. Un terzo livello di comprensione di questo “terzo senso” si trova nell’idea di direzione; quella che Barthes prenderà sarà al di fuori dei sentieri battuti.

Signifiance, sensazione o direzione. Cosa scegliere? Quale senso dare a questo “terzo senso”? Bisogna scegliere? Bisogna applicare successivamente un senso particolare o abbracciare in uno slancio uniforme la polisemia del termine? Barthes lascia a noi la scelta e noi andiamo a vedere quali sono le implicazioni di questo gioco semantico. Quando Barthes vede il livello simbolico (il secondo senso) come un senso evidente, ovvio, il terzo senso al contrario è per lui «un sens obtus, de forme arrondie», è espressione dello «émoussement d’un sens trop clair». Nel suo articolo spiega questo argomento:
Un angle obtus est plus grand que un angle droit […];le troisième sens, lui aussi, me paraît plus grand que la perpendiculaire pure, droite, coupante, légale, du récit: il me paraît ouvrir le champ du sens totalement, c’est-à-dire infiniment. (Œuvres Complètes, II-869).
In modo interessante Barthes precisa ancora:
parce qu’il [le troisième sens] ouvre à l’infini du langage, il peut paraître borné au regard de la raison analytique; il est de la race des jeux de mots, des bouffonneries, des dépenses inutiles; indifférent aux catégories morales ou esthétiques (le trivial, le futile, le postiche et le pastiche), il est du côté du carnaval (Œuvres Complètes, II-869).
Conosciamo bene oggi grazie, tra gli altri, a Bachtin, i concetti associati al tropo del carnevale e del carnevalesco; ovvero l’inversione dei valori, l’aspetto sovversivo che accompagna un tale spostamento e infine la presenza di un pensiero che si trova decentrato e quindi eccentrico. Lo spostamento, lo scivolamento («le sens obtus fait glisser ma lecture» [869]) sono altrettante tattiche di sovvertimento che Barthes impiega con destrezza al fine di mettere in atto — o di fare posto — a questo pensiero del fuori che gli è caro.

Un esempio tipico di rovesciamento che Barthes predilige è lo smontaggio dell’illusione della continuità che il pubblico ha generalmente di fronte a un film, illusione che Barthes, il mitologo, disfa quando avanza l’idea secondo cui la comprensione di un film avviene immagine per immagine; scrive in sostanza che il filmico non può essere raggiunto en mouvement (882) ma attraverso il fotogramma.

Il sovvertimento viene anche dall’opposizione a un certo monologismo che provoca un tale spostamento.

Nell’immagine V estratta dalla Corazzata Potëmkin di Ejzenštejn, Barthes mette in evidenza le dialogisme ténu entre la noble douleur du sens obvie et le langage un peu bas du déguisement assez pitoyable (872). Il mascheramento appartiene di certo al campo semantico del carnevale: Le sens obtus a donc quelque peu à faire avec le déguisement (872). Gli elementi del mascheramento che Barthes nota sono la cuffia, le sopracciglia, la polvere, senza dimenticare il posticcio sotto forma di barbetta di Ivan, per esempio. Dal posticcio al pastiche certo non c’è che un passo che Barthes supera allegramente:
Voyez la barbiche d’Ivan, promue, à mon avis, au sens obtus dans l’image VII: elle se signe comme postiche, mais n’en renonce pas pour autant à la «bonne foi» de son référent (la figure historique du tsar): un acteur qui se déguise deux fois [...], sans qu’un déguisement détruise l’autre; un feuilleté de sens qui laisse toujours subsister le sens précédent [...]; dire le contraire sans renoncer à la chose contredite: Brecht aurait aimé cette dialectique (à deux termes). (Œuvres Complètes, II-873).
Al di là della dialettica, di questa oscillazione che Barthes mette in evidenza, si trova forse nascosto il terzo senso del testo di Barthes stesso di cui sarebbe allora possibile fare una lettura en abîme.
Le postiche eisensteinien est à la fois postiche de lui-même, c’est-à-dire pastiche, et fétiche dérisoire puisqu’il laisse voir sa coupure et sa suture: ce que l’on voit dans l’image VII, c’est le rattachement et donc le détachement préalable de la barbiche perpendiculaire au menton (Œuvres Complètes, II-873).
Se il posticcio si situa al primo livello della comunicazione, il pastiche appartiene al senso ovvio e il feticcio diviene allora questo émoussement d’un sens trop clair, questo senso ottuso de forme arrondie. La parte del corpo così trasformata in feticcio, oggettivata (qui la barbetta) prende movenze falliche di cui troviamo un’eco nell’erezione dei tre ceri sullo sfondo dell’immagine VII scelta da Barthes. Potremmo così leggere un terzo senso nelle parole di Barthes (che decide di mettere tra parentesi) quando scrive a proposito dell’immagine III: «(c’est la main qui d’abord pend naturellement le long du pantalon et qui ensuite se ferme, se durcit, pense à la fois son combat futur, sa patience et sa prudence) (Œuvres Complètes, II-869)». Lascia vedere nel suo testo «sa coupure et sa suture, le rattachement et le détachement préalable» di più livelli di comprensione che, come “un feuilleté de sens” aprono il testo su una possibile lettura en abîme di se stesso? Come a volerci lasciar intravedere tutta la carica emozionale e erotica del suo testo, Barthes continua: «il y a dans le sens obtus un érotisme qui inclut le contraire du beau et le dehors même de la contrariété, c’est à dire la limite, l’inversion, le malaise et peut-être le sadisme» (Œuvres complètes, II-873).

Notiamo che si ritrovano qui le nozioni di fuori e margine di cui si è già detto sopra sul tema del carnevalesco. In più, cita qui il sadismo, un concetto che come vedremo ha un ruolo privilegiato nell’argomento di Barthes. Va ancora più lontano quando aggiunge:
Tout le monde, je crois peut convenir que l’ethnographie prolétarienne de S.M.E., fragmentée tout au long des funérailles de Vakoulintchouk, a constamment quelque chose d’amoureux (ce mot étant pris ici sans spécifications d’âge ou de sexe): maternel, cordial et viril, «sympathique» sans aucun recours aux stéréotypes, le peuple eisensteinien est essentiellement aimable: on savoure, on aime les deux ronds de casquette de l’image X, on entre en complicité, en intelligence avec eux. (Œuvres Complètes, II-873)
Dal senso ottuso sembra sprigionarsi un’emozione ben precisa, un sentimento amoroso al di sopra di ogni «spécification d’âge ou de sexe». Barthes propone qui una categoria che non sarebbe maschile né femminile, un terzo livello, un terzo senso, un terzo sesso o una terza sessualità, una zona in cui, in ogni caso, si collocherebbe «l’androgyne du Satyricon dont parle G. Bataille dans un texte de Documents» (878), ci dice Barthes. Attraverso questa nuova categoria del tutto particolare, Barthes si ricongiunge al problema dell’origine del senso, che cerca di determinare non senza qualche difficoltà: «Des sens obtus, il y en a, non point partout mais quelques part» (878). Le cose si complicano; parlando dell’immagine, riconosce la sua incapacità nel descriverla: «je ne décris pas, je n’y parviens pas, je désigne seulement un lieu» (878). Dunque qui si tratta del problema del luogo, problema topico la cui più grande difficoltà è l’impossibilità di descriverlo, di designarlo:
même incertitude lorsqu’il s’agit de décrire le sens obtus (de donner quelque idée de là où il va, là où il va, là où il s’en va); le sens obtus est un signifiant sans signifié; d’où la difficulté à le nommer: ma lecture reste suspendue entre l’image et sa description, entre la définition et l’approximation. (Œuvres Complètes, II-878).
Il senso dunque oscilla come fa la lettura e presto l’autore stesso.

Per nominare “l’innominabile”, per riflettere il terzo senso, il testo deve superare questa oscillazione, superare lo stesso linguaggio articolato:
si l’on ne peut décrire le sens obtus c’est que, contrairemente au sens obvie, il ne copie rien: comment décrire ce qui ne représente rien? La conséquence est que si, devant ces images, nous restons vous et moi au niveau du langage articulé — c’est à dire de mon propre texte -, le sens obtus ne parviendra pas à exister, à entrer dans le métalangage du critique. Cela veut dire que le sens obtus est en dehors du langage (articulé) mais cependant à l’intérieur de l’interlocution. (Œuvres Complètes, II-878).
Oscillazione ancora non superata questa volta, il senso ottuso trascende il testo stesso, è «en dehors du langage articulé», al di qua del limite, nel margine, la marginalità, il terzo senso. Il luogo in cui può esistere il senso ottuso, questa zona dei possibili, si trova nella dimensione del terzo senso esso stesso. Il solo senso che interessa Barthes in questo testo è il terzo senso; il solo mezzo per il suo testo di avere un senso è di avere un terzo senso, un senso ottuso, nascosto, come «l’émoussement d’un sens trop clair» che permetterebbe lo scivolamento del suo testo verso un’altra possibile lettura. Il terzo senso del testo è la sola lettura che rende il suo testo pienamente intellegibile, che apre infinitamente il campo del senso, dei sensi, della sensibilità, delle sensazioni, dell’erotismo. Poiché questo luogo che ossessiona Barthes è anche e soprattutto il luogo del piacere:
le signifiant (le troisième sens) ne se remplit pas; il est dans un état permanent de «déplétion» [...]; on pourrait dire aussi, à l’opposé – et ce serait tout aussi juste -, que ce même signifiant ne se vide pas (n’arrive pas à se vider); il se maintient en état d’éréthisme perpétuel; en lui le désir n’aboutit pas à ce spasme du signifié, qui, d’ordinaire, fait retomber voluptueusement le sujet dans la paix des nominations. (Œuvres Complètes, II-880).
Qui, dualità dal principio nell’impossibilità per il terzo senso di svuotarsi o riempirsi, questa dualità segna l’impotenza di questo a significare, a compiere quello che Barthes sembra descrivere come un piacere, a cui il desiderio inerente al significato non può arrivare. Il desiderio giunge dunque a esprimersi attraverso il significante, ma non il godimento; tuttavia sembra essere altrimenti per Barthes. Per assicurarsene, fermiamoci un momento sull’utilizzo (voluto) che fa Barthes del cognome e soprattutto dei nomi di Eisenstein. Mentre la critica in generale si accontenta di riferirsi al cineasta sovietico citando tutt’al più il suo primo nome, Sergei, Barthes insiste nel citare i suoi due nomi, Sergej Michajlovič, di cui utilizzerà solo le iniziali S.M. Si conosce fin troppo bene la passione di Barthes per la lingua e i suoi giochi per non vedervi più di una coincidenza. A tal proposito, sarebbe utile citare qui un breve articolo di Barthes, Erté ou à la lettre, datato al 1971, sul grafico, disegnatore di moda e decoratore di teatro russo Romain de Tirtoff, le cui iniziali R.T. ispireranno a quest’ultimo il suo nome d’arte:
Le sens n’est jamais simple (sauf en mathématiques) et les lettres qui forment un mot, quoique chacune d’elle soit rationellement insignifiante [...], cherchent en nous, sans cesse, leur liberté, qui est de signifier autre chose. Ce ne peut être par hasard si, au seuil de sa carriére, Erté a pris les initiales de ses deux noms et en a fait un troisième, qui est devenu son nom d’artiste: comme Saussure, il n’a fait qu’écouter ce double, tressé sans qu’il le sache dans l’énoncé courant, mondain, de son identité. (Œuvres Complètes, II-1232).
Non è nemmeno un caso se anche Barthes gioca nel suo testo con le iniziali S.M.E., le risistema, le rimonta a suo modo perché dicano un’altra cosa. Ma cosa? Nel suo testo, sarebbe questione di SadoMasochismE?

Questa ipotesi sembra sostenuta dalla menzione del sadismo e dall’inversione fatta in un suo testo citato sopra. Essa è sostenuta ugualmente dalla ricorrenza sorprendente dello stesso processo di associazioni tematiche in un supplemento del Plaisir du texte che Barthes scrive nel 1973 in cui allude a un certo S.M., apparentemente uno dei suoi contemporanei e vicini, ma di cui si diverte stavolta a invertire le iniziali:
Souris: M.S. me rapporte ceci: des expériences ont isolé dans la souris son centre du plausi; on lui pose là une électrode reliée à une pédale, et la souris pédale, pédale jusqu’à l’épuisement, jusqu’à mourir de plasir (Cyrano de Bergerac en aurait fait une fiction: n’imaginait — il pas des fables dont le ressort était de prendre à la lettre une métaphore usuelle: mourir de chagrin par exemple). Et dans le cerveau de la souris, à quelques microns du centre de plaisir, il y aurait le centre de punition. Je n’ai rien à dire de cette histoire, et cependant elle ne cesse de m’enchanter (Œuvres complètes, II 1590).
Tutto è qui: il piacere, la punizione, la tecnica che consiste nel «prendre à la lettre une métaphore usuelle» o qualche iniziale fino al commento stesso su questa storia. Benché pretenda di non aver niente da dire di questa storia, prova prima il bisogno di condividerla per confessare poi che essa non cessa di incantarlo. Ciò che Barthes ci offre qui è una dimensione nuova su cui il suo testo si apre. Il terzo senso non si applica più solo all’oper«a di S.M.E., ma scaturisce ora dal testo di Barthes stesso e gli offre uno spazio produttivo in cui Barthes stesso fa sciamare i suoi semi, si ama e ama S.M. [1] Con un piacere e una evidente voluttà dei sensi, Barthes semina i suoi sensi, li dissemina in tutti i sensi. È grazie a questa disseminazione che Barthes insemina il suo testo con la semenza che gli permetterà di produrre il terzo senso e nella stessa occasione di riprodurre se stesso.
Reste à dire un mot de la responsabilité syntagmatique de ce troisième sens: [...] Il est évident que le sens obtus est le contre-récit même; disséminé, réversible, accroché à sa propre durée, il ne peut fonder (si on le suit) qu’un tout autre découpage que celui des plans, séquences et syntagmes (techniques ou narratifs): un découpage inouï, contre-logique et cependant vrai (Œuvres Complètes, II 880-881)
Barthes discute qui dell’effetto che può avere il terzo senso sull’insieme del film, ma fa anche allusione en abîme al trattamento che somministra alle immagini di Eisenstein. Infatti le passa in rivista, ne seleziona qualcuna, la estrae dall’insieme al quale appartengono, poi le riposiziona in un ordine che conviene meglio alla sua analisi. Nei suoi esatti termini, effettua del film di Eisenstein «un tout autre découpage que celui des plans, séquences et syntagmes», smonta e rimonta a suo piacimento le sequenze e le immagini; in una parola, ne fa un proprio montaggio. È da notare che le riflessioni di Barthes sul montaggio si iscrivono nel quadro più ampio delle discussioni dei problemi teorici del cinema a cui si congiunge Christian Metz per esempio, nei due tomi dei suoi eccellenti Essais sur la signification au cinéma.

Lo smontaggio e rimontaggio delle immagini di Eisenstein è una operazione estremamente produttiva poiché: «il [le photogramme] est donc à la fois parodique et disséminateur; […] il est la trace d’une distribution supérieure des traits donc le film vécu, coulé, animé ne serait en somme qu’un texte parmi d’autres» (Œuvres Complétes, II-882). Attraverso la frammentazione dei film di Eisenstein in immagini fisse, in fotogrammi, Barthes giunge infine a dominare la vertigine delle immagini in movimento e a rompere così la resistenza alla sua analisi che offriva fin qui il filmico:
le filmque est donc exactement là, dans ce lieu où le langage articulé n’est plus qu’approximatif et où commence un autre langage […]. Le troisième sens, que l’on peut situer théoriquemet mais non décrire, apparaît alors comme le passage du langage à la signifiance, et l’acte fondateur du filmique même. (Œuvres Complètes, II-882)
Nella nuova dimensione che rappresenta il terzo senso, Barthes può infine passare dal film al testo, dalla disseminazione all’inseminazione, e dal senso alla semenza; termini che condividono la stessa etimologia, come ci ricorda Le petit Larousse la cui copertina ci offre un’immagine (una in più) che Barthes ha dovuto apprezzare molto. Infatti come i grani del soffione o dente di leone — questa pianta «à petits fruits secs surmontés d’une aigrette qui facilite leur dissemination par le vent» (784), precisa il dizionario — i cui frammenti formano un tutto, che una volta disgiunti si disseminano per seminare, così sono i fotogrammi/frammenti di Eisenstein, che riorganizzati dal vento dell’analisi barthesiana giungono a produrre un senso nuovo. Produzione che ha tutto il comportamento della riproduzione nella misura in cui il senso, la semenza — ma anche il senso, l’essenza – sono frutto di un desiderio sensuale; e quale desiderio, poiché sembra non essere possibile che in questo luogo, questa zona, questo spazio che gli offre il gioco (“gap”, “Play”, in inglese) tra le immagini di Eisenstein, in questa distanza che esiste tra la forma del segno filmico e il suo/i suoi contenuto/i.

Questo desiderio, «sans spécification d’âge ou de sexe, indifférent aux catégories morales ou esthetiques», questo desiderio sovversivo respinto al di fuori, marginale, rassomiglia molto al desiderio omosessuale che sottintende costantemente il testo di Barthes e che si trova sublimato nella sua scrittura. Il testo di Barthes sul terzo senso può allora essere considerato come un perfetto esempio della sublimazione attraverso la scrittura della sua identità omosessuale. Quanto all’omosessualità di S. M. Ejzenštejn, sarebbe riduttivo vederla come la ragione della scelta di Barthes per questo cineasta in particolare. A tal proposito, è interessante notare che Dominique Fernandez, discutendo dell’omosessualità di Ejzenštejn, darà all’introduzione e alla conclusione della sua opera un titolo la cui ispirazione non può che rallegrarci: Le troisieme Eisenstein.

Scegliamo, a questo punto della nostra analisi, di citare incidentalmente questo dettaglio biografico riguardante i nostri due autori, seguendo l’esempio di Barthes stesso quando spiega nel 1973, in un ultimo paragrafo di seguito al suo testo, quasi come post-scriptum del suo articolo Diderot, Brecht, Eisenstein, le ragioni che riuniscono i tre autori intorno ai quali si articola tutta la sua tesi:
Brecht, semble-t-il, ne connaîssait guère Diderot (à peine, peut-être, le Paradoxe). C’est pourtant lui-même qui autorise, d’une façon toute contingente, la conjonction tripartite qui vient d’ être proposée. Vers 1937, Brecht eut l’idée de fonder une Société Diderot, lieu de rassemblement d’experiences et d’études théatrales, sans doute parce qu’il voyait en Diderot, outre la figure d’un grand philosophe matérialiste, celle d’un homme de théâtre dont la théorie visait à dispenser également le plaisir de l’enseignement. Brecht établit le programme de cette Société: il en fit un tract qu’il projeta d’adresser à qui? A Piscator, à Jean Renoir, à Eisenstein (Œuvres Complètes, II-1596).
Una volta riordinati i dettagli biografici, è estremamente produttivo analizzare l’estetica che accompagna l’identità omosessuale dei due uomini e di ricavare da questa estetica uno spazio fertile in cui può evolvere, amare, desiderare, gioire, produrre e riprodursi l’amante che Barthes diviene.

Infine, abbiamo visto che la comparazione tra l’estetica di Eisenstein e quella di Barthes rivela come quest’ultimo giunge a far subire al proprio testo il trattamento da lui stesso inflitto ai film del cineasta russo. Per convincersene, concluderemo menzionando la copertina de L’Obvie et l’Obtus, che sarà pubblicato due anni dopo la morte di Barthes, su cui si trova una prière d’insérer firmata R.B. che non è altro che un montaggio di un estratto di un testo Le troisieme sens in cui certe parole, talvolta anche frasi intere, sono cancellate per essere sostituite da semplici barre verticali:
il me faut distinguer trois niveaux de sens. Un niveau informatif, ce niveau est celui de la communication. Un niveau symbolique, et ce second niveau, dans son ensemble, est celui de la signification. Est-ce tout? Non. Je lis, je reçois, évident, erratique et têtu, un troisième sens. (cité par L.J. Calvet 305).
Ciò che Barthes fa qui riscrivendo il suo testo, facendone un montaggio, è di produrre un testo nuovo, un senso nuovo.

In questo modo, anche dopo la sua morte, Barthes continua a produrre e a riprodursi. Giunge così a sfuggire a «sa mort future dans les termes même où il a nommé et compris le monde» (Système de la Mode — un altro S.M. — 293). E finalmente, dalle profondità di questo spazio testuale, di questa zona del desiderio, di questo luogo del piacere, continua dunque a risuonare — e a ragionare — la voce di Roland Barthes che resta, ancora oggi, uno dei commentatori più lucidi delle immagini del nostro mondo moderno.


* In The French Review, vol. 72, n. 4, 1999, pp. 676-686.

[1] Dubois gioca spericolatamente con tutte le omofonie possibili del francese contenuto nel giro di pochi lemmi: trascriviamo in corsivo i fuochi fonetici su cui l’autore fa avvitare la lingua: «Barthes essaime – propriamente /sciama/, ma in italiano il verbo non ammette la forma transitiva – ses sèmes, s’aime et aime S.M.» [N.d.T.].


Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, Ivan Groznyj, 1944

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